Don Tito Pasquali fu l’esecutore diretto dell’Opera, il traduttore , negli elementi del “duro quotidiano”, degli ideali del Fondatore, che egli seguì sempre come suo Superiore e “guida” nella sequela del Signore.
Dopo la morte di don Minozzi (11 novembre 1959) don Tito prese su di sé la responsabilità grande della costruzione caritativa e religiosa minozziana e anche se all’apparenza sembrava fragile e un po’ incurvato, fu erede e testimone sicuro e operoso della volontà dei fondatori.
Gli ex discepolini di Ofena lo ricordano sicuramente mentre incedeva flemmaticamente e silenziosamente con le braccia e mani incrociate dietro le spalle e quando, prima di andare a dormire, nel silenzio assoluto, si ascoltava la sua flebile voce che esprimeva un pensiero di buonanotte e di incoraggiamento a vivere la vocazione.
Nell’epopea della Famiglia religiosa dei Discepoli e nel percorso della sua storia iniziale fino ai primi anni ’70, la presenza di don Tito Pasquali, dapprima accanto a padre Semeria e a padre Minozzi e poi come loro successore, è certamente discreta, umile, ma importante da coprotagonista di un cammino condiviso di fede, di carità, di sacrifici, di corresponsabilità.
Il 1929 fu, ad esempio, un anno di speranze, ma anche di difficoltà. Furono predisposte le Nuove Costituzioni da approvare da parte dell’Autorità Ecclesiastica, ma vi era preoccupazione e amarezza per scarsità di collaboratori, mentre “unico sacerdote autentico e spirito di sacrificio deciso, diseguale nei giudizi, mutevole per ingenuità. estroso talora per temperamento, ma rettissimo sempre, austero, asceta, delicato. -D. Tito Pasquali, unico e solo, per anni”.
La prima copia delle Costituzioni viene offerta a don Tito con la dedica manoscritta di padre Minozzi:” A Tito, il primo e il più fedele, la prima copia nel segno di Dio. D. Giovanni Minozzi“. Nel 1930 ci fu l’ipotesi di un accorpamento con altre congregazioni, ma don Minozzi si oppose. Don Tito, a tal proposito, nei suoi Diari, scrive: “Don Minozzi non volle fusioni … volle andare con Dio, ove Iddio lo menava, ove Egli vorrà.
E’ una fede sua e mira diritto, senza piegare mai dinanzi ad alcuno, se non alla volontà di Dio. E non è superbia. No, no, no. Ho detto che è fede in LUI: è una ispirazione di Dio. Non è forse Lui che opera, il Signore? … La fede di don Giovanni s’innalza con uno spunto lirico di passione e di ardore. Questa lettera è preziosa ( si tratta della lettera datata 6 marzo 1930 indirizzata da don Minozzi al card. Lepicier, a cui presenta le Costituzioni per l’approvazione e in cui fa presente che padre Semeria, cui lo legavano vincoli incrollabili di affetto, restava fedele alla sua Congregazione dei Barnabiti).
E’ un documento di fede, di umiltà sincera, di pietà profonda, di intero abbandono nelle mani di Dio”. (Diario di don Tito, 15 marzo 1930). All’approvazione delle Costituzioni da parte della Autorità Ecclesiastica, don Tito scrive nel suo Diario (19 marzo 1931): “E’ una luce. E’ l’opera di Dio. Sempre così il Signore. Anche nelle tenebre splende sempre pieno di amore e di bontà” .
Don Tito diceva di sé: “Servus inutilis sum!”. La sua adesione al programma dell’assemblea generale dei Discepoli, scaturiva dal profondo della sua convinzione religiosa, dal senso di appartenenza alla Chiesa e alla Famiglia dei Discepoli.
Le coordinate della vita religiosa in comune, disegnate da don Minozzi, suonavano consentanee al suo spirito meditativo, alla sua tacita operosità, alla sua semplicità, umiltà ed obbedienza.
Fu soprattutto uomo di fede, come ebbe a definirlo don Romeo Panzone; infatti egli “aveva retto l’edificio della sua vita interiore sulla umiltà, dedito a compiere il dovere fino in fondo e ogni riuscita attribuendo a Dio. Questa la sua forza.
Le parole di Don Minozzi scendevano sicure e rassicuranti nella sua anima, nell’invito alla preghiera in comune e ripensando le cose alla luce di Dio.
Don Giovanni così spronava i confratelli: “Non è possibile conservare e propugnare con acceso fervore la Fede, se non la manteniamo ardente, sfavillante in noi. La Fede è tesoro intellettuale anzitutto, che va continuamente accresciuto di su la guida dei grandi maestri dello spirito.
Le stesse funzioni liturgiche, in che la Fede si manifesta, diventano fredde e aride, se manca il calore interiore, se crolla di dentro la fiamma del fuoco, in che l’amor nostro getta, con inesausta brama, la legna alimentatrice”.
Dopo questa breve premessa introduttiva, credo dovremmo riflettere e meditare sulle parole di don Romeo Panzone, stretto collaboratore di don Tito come segretario generale e poi suo successore, quale contributo attualissimo per vivere la propria fede, nel segno della proposta evangelica di Gesù, come incontro trasformante e come impegno di vita nell’attenzione ai fratelli.
La testimonianza di un uomo di fede non può che aiutarci ad orientare il nostro cammino di cristiani autentici e per superare le maglie delle varie idolatrie del nostro tempo, la idolorum servitus direbbe padre Semeria, che ci fa credere vanamente nelle apparenze, lasciandoci infelici e insoddisfatti. Vi propongo, di seguito, la lettura del brano tratto da “P. Tito Pasquali dei Discepoli”, a cura di don Romeo Panzone, come un piccolo vademecum di virtù che aprono la mente e il cuore alla Fede: “I pensieri suoi erano i pensieri della fede, le sue convinzioni erano radicate nelle verità proposte dalla fede.
La rivelazione gli era luce di vita, semplicemente e totalitariamente, cioè senza complicazioni mentali, senza attenuazioni interpretative, fermo all’insegnamento del magistero. Le verità di fede erano per lui acquisizione tranquilla e irremovibile, non scalfite dal dubbio e neppure bisognose di dimostrazione: così come il sole c’è ed illumina e chi non lo vede ha gli occhi ciechi.
La fede aveva guidato la Chiesa attraverso i secoli, coronandola di benemerenze. Tutto ciò che nella storia della civiltà mostra il riverbero della fede, egli lo apprezzava, lo esaltava, lo proponeva. Le voci dei dubbiosi, dei dissenzienti, degli pseudo innovatori, che dall’interno della Chiesa negano tali benemerenze, lo irritavano a volte, ne infiammavano la reazione polemica, oppure lo deprimevano con profonda tristezza.
Non ha mai accettato il processo al passato. Attraverso P. Semeria si rifaceva alla necessità di trar fuori, nel travaglio di elevazione e di organizzazione della società, “nova et vetera“; ma in realtà egli, con la mente e col cuore, rimaneva abbarbicato di preferenza all’antico, più che disposto alla novità, che bene spesso, bisogna dire, veniva proposta in forma contrastante con i valori tradizionali. Non ha mai accettato la compromissione della fede con lo spirito mondano e con la politica, né nel poco, né nel molto. Fu un uomo di fede creduta e vissuta: creduta senza problematiche, vissuta con semplicità, con linearità, con forza; oserei aggiungere anche nelle forme esteriori, oltre che, primamente, nell’uomo interiore: fede e coerenza di vita con la fede.
Si sentiva solidale col Papa, col magistero. Negli ultimi tempi della parola del Papa faceva oggetto di continua riflessione, riecheggiandola nei suoi articoli, riproponendola a tutti come sicura dottrina, punto di riferimento alle coscienze nel mare turbato del dissenso.
Dalla mentalità di fede e dal proposito perseverante di allineare ad essa la vita derivavano quel suo vivere riservato, quella mortificazione costante, quell’austerità di mezzi e di modi, quella fuga istintiva dai luoghi, dalle occupazioni, dalle relazioni, che potessero apparirgli estranei al comportamento di fede.
Quasi a conferma e a sigillo del suo modo di vivere egli raccomanda: “Carità, ma disciplina, fermezza; disciplinati e pii, lontani anche da semplici segni di secolarizzazione; niente permissività” ….. La fedeltà agli autentici valori evangelici e la costante tendenza nell’uniformare ad essi la sua vita, con le conseguenze di lotta, di rinunzia, di impegno sono la risposta che egli ha dato all’amore di Dio.
Il modo personale di una tale risposta egli lo ha derivato da Cristo. C’è una componente essenziale della personalità di P. Tito, che ne segna lo spirito: il rinnegamento di sé. Egli percorre la via del nulla, per raggiungere la pienezza del tutto, secondo le indicazioni che il Maestro divino ha dato a chi vuoi essere discepolo verace: rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Se uno non rinnega se stesso non può essere mio discepolo.
Gli piaceva applicare la mente agli avvenimenti e ai problemi politici e sociali, alle vicende della pace e della guerra, alla organizzazione della vita civile, al modo di presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Gli avvenimenti gli provocavano compiacimento o turbamento, quest’ultimo in maniera sofferta, così da gettarlo, per giorni interi, in profonda malinconia, esprimendogli riflessioni amare … Stava col Papa: lo ammirava e lo compassionava, per lui trepidava, sempre desideroso di manifestargli la devozione e la solidarietà più piena. In tal modo viveva sentendo la Chiesa.
Passato e presente si scontravano nella sua anima … Della vita egli aveva la visione che ne dà la fede proposta dalla Chiesa, così come l’aveva appresa negli anni della sua formazione; riaffermava la disciplina e la morale nella vita cristiana e nella vita consacrata, senza scappatoie accomodanti o revisioni permissive; voleva il dovere e l’impegno compiuti con senso di responsabilità e con sacrificio; inculcava l’obbedienza pronta e rispettosa; eran questi i punti fermi della sua condotta …
Gli esempi di lui non servono certo come modello da ripetere, perché è originale ogni persona e sono irripetibili e diverse le situazioni della vita; ma sono stimolo a scendere con lucida consapevolezza dentro noi stessi e a fare, coerenti come lui e fino in fondo, tutto ciò che la coscienza ci detta come adempimento del dovere nelle circostanze presenti”.