LA NASCITA
La prima idea di un’opera di assistenza fisica e morale agli Orfani di guerra venne a Padre Semeria nel 1916 (nei suoi anni romani, genovesi e svizzeri egli si era sempre attivamente interessato ai problemi dell’assistenza in genere), quando, giunto a Courmayeur per completarla convalescenza dopo una grave malattia, ebbe modo di apprezzare, per personale esperienza, i grandi vantaggi che i giovani e giovanissimi orfani avrebbero potuto trarre dalla permanenza, anche temporaneamente periodica, in un luogo così largamente dotato dalla natura, com’era il piccolo centro valdostano, allora poco più di un villaggio, ma già ricercato da molti per ragioni di salute o di semplice svago.
Contribuì forse anche lo spettacolo, al quale quotidianamente doveva assistere, del genere di vita che i “signori” villeggianti trascinavano, oziando nel lusso, a far maturare nella mente del Padre la convinzione che, in fondo in fondo, non sarebbe stato altro che un piccolo atto di giustizia sociale estorcere, ma simpaticamente, come sapeva fare lui, agli spensierati villeggianti i mezzi necessari per per far godere un po’ di salutare soggiorno agli orfani di quegli italiani che sui monti erano andati, non per villeggiare, ma per combattere e morire.
Courmayeur fu la prima colonia alpina, ma presto ne seguirono altre, sparse, in maggioranza, sull’arco occidentale delle Alpi (Gressoney, Valpelline, ecc.).
Padre Semeria ottiene i locali gratuiti o semigratuiti in uso temporaneo e si avvalse, per l’assistenza dei giovani, della collaborazione, sempre gratuita, di volenterosi e santi sacerdoti, e specialmente dei suoi buoni confratelli barnabiti.
Ma l’elemento determinante che fece nascere l’idea di un opera organizzata di assistenza di Orfani di guerra, soprattutto di quelli meridionali, fu l’incontro con Padre Semeria e con Don Giovanni Minozzi.
Erano gli ultimi mesi del 1916, ad Udine.
Nei suoi “Ricordi di guerra” Don Minozzi descrive come avvenne l’incontro:
“Si sentiva la voce di lui (Padre Semeria) rauca pronunziare a scatti, sbuffando, frasi brevi, rivolte a taluni che gli si ergevano ritti innanzi, impalati, e facevano appena travedere la testa curva su un immenso scrittoio sopra la quale s’ammonticchiavano cumuli di libri, di giornali, di riviste, di lettere aperte o chiuse, scritte o da scrivere, cominciate e accantonate, firmate e gettate da parte per imbustarle e rileggerle forse.
Come alzò gli occhi un istante il capo affannato e mi scorse, domandò secco:
-Tu chi sei?-
-Don Minozzi.-
Aveva la capigliatura arruffata e dalla fronte grondava sudore.
Sgranò sorpreso gli occhi scintillanti e quasi beatamente fissandomi nel largo sorriso irenico che dal cuor contento d’un lampo l’accolse:
-Oh- esclamò.
E s’alzò di botto, mi si fece incontro, felice, mi tese le braccia corte e nerborute e mi sospinse un poco, lievemente, come a riguardarmi meglio, verso la finestra spalancata donde fiottava aria fresca nel palpitìo di faville d’oro raggianti melodiose da un tramonto di fuoco.
Parole brevissime. C’intendemmo subito.
Le nostre anime parvero immediatamente riconoscersi gemelle.
Così avvenne il primo incontro.
Ne seguirono altri; finchè alla fine della guerra:
“Passammo insieme il Piave – è ancora Don Minozzi che ricorda- con l’esercito nostro vittorioso e ci avviammo verso Belluno. Eravamo soli nell’auto. Cadeva il giorno e pur tra i canti della vittoria che si levavan d’ogni dove, l’ora suadeva a pia malinconia.
Parlavamo a respiro, dolce e piano. Ma i nostri cuori erano stati più vicini, avevan palpitato più intimamente l’uno nell’altro”.
Parlarono del proprio immediato futuro, dei progetti e delle incertezze che li rendevano vaghi.
Ma le incertezze si dissolsero come nebbia al sole quando, fra i lori pensieri, prese forma quello degli orfani del mezzogiorno.
Si rividero più tardi a Roma e a Bologna. Ripresero il discorso sul progetto che ormai assillava ambedue, come se non fosse stato mai interrotto, e la conclusione fu la seguente:
«I meridionali come tutti i soldati d’Italia, non c’è dubbio; ma nel insieme, certamente più sfortunati, da che, non avendo alcun scampo di sorta, non avevano potuto imboscarsi, anche onestamente, in alcun modo: fanti i più, eran feriti, si erano immolati generosamente per la Patria. Ogni volta che si parlava a loro, si cercava di animarli, incitarli nella durissima lotta per una terra che quasi non conoscevano altro che per l’inesorabile agente fiscale, si vedevan piegare la testa e lacrimare: i figli abbandonati alla miseria negli abituri deserti.
Tutti avevan figli, tanti figli. Come un immenso esercito di piccoli diseredati gemeva attorno a loro, s’aggrappava alle loro spalle, premeva, a soffocarlo, il loro cuore.
E sempre noi avevamo ripetuto che ci saremmo occupati di essi, che la Patria, l’eternità Patria per la quale combattevano non li avrebbe mai dimenticati. Allora? La realtà sanguinante imponeva la fedeltà alla parola data (Don Minozzi)».
«Pensammo e ci dicemmo ricorda a sua volta Padre Semeria sul Bollettino dell’Opera, qualche anno dopo la fondazione che dopo aver insieme lavorato fruttuosamente a preparare il buon esito della guerra, sarebbe bello, sarebbe logico, d’una logica non so se perfettamente aristotelica ma certo umana e cristiana, continuar dopo la guerra il lavoro concorde per sanar le piaghe che essa, la guerra, lascerebbe aperte nel bel corpo dell’Italia vittoriosa.
Il pensiero ci andò agli orfani dopo il confronto ai padri eroici, l’aiuto ai figli gloriosi e sventurati ci andò a quell’Italia meridionale di cui vedemmo giorno per giorno il valore indomito…».
In una perfetta armonia di intenti si veniva delineando con chiarezza il futuro il campo di apostolato dei due Fondatori: gli orfani e l’Italia meridionale.
Dall’idea al proposito e dal proposito all’azione, i due padri resero breve il passo.
«Non fummo insensibili ricorda ancora Padre Semeria né Don Minozzi alla carità del natio loco, ne io alla carità verso la mia religiosa famiglia dei PP. Barnabiti. E così sorse subito nel 1919, il primo anno di vita, il progetto da parte di lui di uno, anzi due orfanatrofi ad Amatrice (allora in provincia di Aquila) e da parte mia di un orfanatrofio maschile a Gioia del Colle (in provincia di Bari) dove i miei confratelli avevano, accanto a una bella chiesetta nuova, una modestissima residenza».
Ma affinché le iniziative umane, anche quelle volute e ispirate dalla Provvidenza, che debbono però avere i piedi ben piantati sulla terra, abbiano successo è purtroppo e sempre necessario il denaro; e denaro non ce n’era.
Padre Semeria partì per l’America, munito di vuote promesse e di consolanti benedizioni, per bussare, come Fra Galdino, ai borsellini, raramente gonfi, più spesso anemici e grinzosi, degli emigranti italiani.
Don Minozzi rimase in Italia per compiere il primo lavoro di esplorazione, di preparazione del terreno e per fare appello alla beneficenza.
Il completo disinteressamento del Governo all’iniziativa dei due eccezionali amici, che pure era evidentemente rivolta a favore del paese, a quella parte di esso che avrebbe dovuto essere il suo deposito più sacro, gli Orfani di guerra, amareggiò profondamente Padre Semeria, sebbene egli non si aspettasse di più.
Ricorda infatti, il particolare con bonaria ironia ( aveva chiesto un aiuto per le spese di viaggio): «Non esageriamo. Le forme furono quasi sempre rispettate. La commedia fu perfetta. Non un no, anzi molte promesse. Il segretario particolare del Ministro sbuffò lungamente con un amico suo e di Fra Galdino, venuto a esporgli le modeste pretese del fraticello.
La cosa era grave. Appoggio di Governo ( G maiuscola, pronuncia enfatica) a un frate… Fra Galdino continuo poi ma non è implicato nell’affare di Caporetto? (solo pochi giorni prima la Commissione di inchiesta aveva stampate ampie lodi di Fra Galdino. Ma cosa valgono i verdetti delle Commissioni di inchiesta nel mondo politico? Ed è forse dovere o abitudine di un ministero difendere la giustizia contro i faziosi?), vedremo, vedremo.
E probabilmente il commendatore non parlò né punto né poco al Ministero…
Non se ne fece nulla e certo Fra Galdino non vide, dopo un mese, alcun risultato.
Denari governativi, niente. Meglio così».
Tuttavia, come Dio volle e grazie al suo aiuto e all’impegno congiunto dei due Fondatori la somma necessaria per il riconoscimento legale dell’Opera fu raggranellata.
L’Opera Nazionale per il mezzogiorno d’Italia fu eretta in ente Morale con Regio Decreto dal 13 gennaio 1921.
DIFINIZIONE GIURIDICA
Giuridicamente l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia è un Ente educativo assistenziale con lo scopo iniziale primo e supremo dell’assistenza morale e civile, e anche materiale, agli Orfani di guerra.
Fu fondata, come è stato precedentemente detto, subito dopo la prima guerra mondiale, da Padre Giovanni Semeria e Don Giovanni Minozzi,ex cappellani militari di guerra, irresistibilmente sollecitati da carità cristiana e di amor di Patria.
L’Opera fu eretta in Ente morale con R.D. n.23 del 13 gennaio 1921 e, in segiuto, a norma degli articoli 2) delle leggi n. 1397 del 26 luglio 1929 e n. 365 del 15 marzo 1958, fu collegato con l’Opera Nazionale per gli orfani di guerra (ONOG), ottenendo, in conseguenza, la completa equiparazione fiscale all’amministrazione dello Stato, pur conservando sempre il peculiare di Ente privato.
L’Ente è sotto la tutela dell’Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra e, tramite questa, della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’Opera come Ente Morale, è retta da un Consiglio di Amministrazione, composto di cinque membri, che elegge nel proprio seno il Presidente.
Del Consiglio di Amministrazione ne fanno parte il Consiglio Delegato e il Segretario Generale.
Il Consiglio di Amministrazione viene eletto da un’ Assemblea di un numero illimitato di Soci, la quale si riunisce almeno due volte all’anno per la discussione e l’approvazione dei bilanci e per gli altri affari di sua competenza, secondo le norme statutarie.
“Tutte le cariche del Consiglio e dell’Assemblea sono gratuite (Statuto, art.20)”.
Con decreto del Presidente della Repubblica del 12 luglio 1960, pubblicato nel n. 198 della “Gazzetta Ufficiale” il 13 agosto dello stesso anno, sono state apportate alcune modifiche al testo dello Statuto del1921.
In forza di tale modifiche il Segretario Generale dell’Opera Nazionale, che è anche Segretario del Consiglio di Amministrazione e dell’Assemblea dei Soci, sarà sempre scelto fra i Sacerdoti Discepoli, su designazione fatta dal Consiglio Generale della Famiglia Religiosa.
Inoltre i Discepoli avranno sempre la direzione degli Istituti maschili dell’Opera e degli Istituti femminili saranno sempre preposte, di preferenza , le “Ancelle del Signore”.
“Famiglia dei Discepoli” e “Ancelle del Signore” sono le due congregazioni religiose, maschile e femminile, fondate da Don Giovanni Minozzi.
Per ottenere il riconoscimento legale, un Ente deve poter dimostrare di possedere un patrimonio: ed anche l’Opera ebbe il suo, ben specificato nell’articolo 6 dello Statuto.
Questo articolo conferma che l’Opera è nata evidentemente da un vero e proprio atto di fede.
Essi infatti comprende sei voci, ma solo due di essi hanno per oggetto qualcosa di concreto: i beni immobili e mobili posseduti dall’Ente, tutt’altro che abbandonati al tempo della sua fondazione, e mezzo milione di lire investito in Buoni del Tesoro.
Gli altri paragrafi erano quattro dichiarazioni di speranza o, più esattamente di fiducia nella Provvidenza; perché nient’altro significavano le parole: sussidi, offerte, lasciti e cose del genere.
Patrimonio inconsistente per i profani, ma non per i Fondatori.
Infatti la Provvidenza ha ampiamente ripagato la fiducia riposta in Lei.
Oggi l’Opera Nazionale è considerata la più vasta opera assistenziale dovuta all’iniziativa privata.
Questo è stato fatto rilevare anche in Parlamento. E’ evidente che non si può offrire, oltre l’educazione e l’assistenza morale, anche un tetto a migliaia di bambini e di ragazzi, senza disporre di case, funzionali, magari belle, accoglienti, luminose e ridenti. Ma i soli e veri padroni di tutto sono gli assistiti.
Come da un atto di fede è nata l’Opera, così è un continuo atto di fede la sua esistenza.
Infatti eretta con fondi chiesti ed ottenuti in carità, della propria attività, delle offerte, dei rari lasciti e di tutto ciò che la Provvidenza sa suggerire alle anime buone, giovandosi, saltuariamente, di qualche sussidio che le viene concesso dalla Sato.
Fin dagli inizi l’Opera fu posta dai Fondatori sotto la protezione della Madonna della Provvidenza, invocata con l’affettuoso attributo di Madre degli Orfani.
Forse questo c’entra poco con lo stato giuridico, ma per noi è molto importante.